19 Dicembre 1926 - Domenica

PODESTA’ 

La denominazione sonora che il governo fascista volle rievocare dagli ordinamenti degli antichi comuni italici per ornare gli odierni reggitori comunali, onde conferire loro maggiore dignità e importanza, riconduce il pensiero a quella lontana epoca di lotte feconde nella quale si formarono, forse più che in altra mai, le caratteristiche della stirpe, avida di affermarsi, pur nella disunione e nei tumulti, contro lo straniero e le sue costumanze, geniale in originali ritrovamenti e iniziative, gloriosa delle sue memorie e ricca delle sue speranze. Podestà venne dapprima denominato il capo del Comune, quando, per dare maggior unità e forza all’istituzione comunale , durante la lotta contro il Barbarossa, si volle che il comando fosse affidato a persona superiore alle influenze di partito. Al podestà, che si diceva tale per grazia di Dio, vennero affidati i poteri esecutivo, il giudiziario e quello militare, e venne giurata obbedienza (juramentum sequimenti o sequendi). In compenso il podestà, assumendo solennemente la sua carica, giurava di rispettare lo statuto del Comune, senza pur prenderne visione (ad librum clausum: <<a libro chiuso>>). Tutto ciò era bello. Era un patto di reciproca piena fiducia, sul quale doveva posare la solidarietà di intenti e di azioni che univa autorità e cittadini, in omaggio alla maggiore fortuna della città.

Questo strettissimo collegamento tra responsabilità del reggitore e fedeltà dei sudditi era reso compatibile con la gloriosa libertà comunale dalla breve durata della carica podestarile. Il podestà era eletto per non più di un anno: più tardi lo fu per soli sei mesi, ed era strettamente vietato il proporne la conferma. Nello statuto di Ivrea si comminava la pena di morte a chi anche soltanto trattasse della sua rielezione. A questa sola condizione la ricca impulsivitàdei partiti accettava il giogo di un reggitore scelto all’ infuori di essi. Poiché infatti il podestà veniva chiamato da altra città, e doveva rimanere estraneo alle divisioni e alle lotte intestine, superiore sempre alle stesse debolezze umane di ogni società. E a tale scopo, oltre la brevità della carica, gli era imposto di non condurre seco né mogli né parenti, né di averne nella città da lui governata, non gli era permesso di mangiare né di bere con alcun cittadino, né di dormire in casa di alcuno di essi, non poteva ricever da alcuno del denaro in prestito, né comperar fondi nel territorio comunale né pattuirne l’acquisto per il tempo in cui sarebbe scaduto dalla carica, e anche gli era vietato di accettar doni che non fossero di tenuissimo valore, ossia pure simboli di omaggio.

A garantir la città da una possibile tirannia, il podestà non doveva esser imparentato con altri che precedentemente avesse rivestita quella carica nella stessa città, e la scelta non poteva cadere su persona che già avesse signoria su altra città o fosse parente di persona che tale signoria avesse.

L’elezione del podestà veniva fatta dal Maggior consiglio o dalla Giunta (dopo che il Maggior consiglio avesse indicata la provincia da cui l’eligendo si dovesse togliere) ed era il più sovente affidata alla sorte. Talvolta si richiedeva una terra di mandare il suo miglior cittadino o si rimetteva la scelta al sommo pontefice, o all’imperatore, o ad un signore potente.

Il podestà aveva una paga fissa (feudum) e, in molti luoghi, parte delle multe e altri vantaggi. Normalmente alloggiava nel palazzo del Comune. Non poteva allontanarsi dal territorio del Comune; in alcuni luoghi non poteva neppure spedir lettere o riceverne fuori della città senza il consenso dei maggiorenti.

Per garantirsi contro violenze e soprusi del partito dominante, coloro che erano richiesti come podestà sovente accettavano la magistratura solo a condizione che la città che li domandava desse in ostaggio alla sua patria alcuni dei suoi.

Scaduto dall’ufficio, il podestà doveva render i conti delle entrate e delle spese ed era sottoposto a sindacato. Quando egli aveva ben meritato, veniva largamente donato, la sua effige era dipinta nel palazzo del Comune, e gli si permetteva di aggiungere al suo stemma quello della città da lui governata.

Il podestà nel Medio Evo era strumento di unità e di forza che i Comuni si imponevano in tempi di fortunose vicende, per superare il fastidio e il pericolo delle guerre fratricide. Oggi qualcosa dell’antica veste rimane indubbiamente al reggitore locale che è posto dal governo centrale a garanzia di una maggiore unità d’indirizzo nell’azione amministrativa, e ad impedire che le competizioni dei piccoli uomini nei piccoli centri rallentino l’opera ricostruttiva di un regime che si propone, al di sopra di ogni ideale particolare, la forza della nazione.

A norma della legge 4 febbraio 1926, l’odierno podestà è eletto con decreto reale, dura in carica cinque anni e può esser confermato. Per esser podestà occorre: aver compiuto il 21° anno d’età, esser cittadino italiano, non aver subito condanne per brogli elettorali o per reati contro la sicurezza dello Stato, aver conseguito almeno il diploma di maturità classica o scientifica, o di abilitazione tecnica o magistrale, o altro equipollente. Il titolo di studio non è necessario per chi abbia partecipato alla guerra 1915-1918 con il grado di ufficiale o sottufficiale presso truppe in zona d’operazione, e per coloro che abbiano ricoperto per non meno di sei mesi, con capacità e competenza amministrativa, l’ufficio di sindaco (o di assessore anziano, in mancanza del sindaco) o di commissario regio o prefettizio o di segretario comunale (art. 9 della citata legge, e regio decreto-legge 9 maggio 1926).

L’ordinamento podestarile, imposto dalla legge 4 febbraio 1926 per i soli Comuni con popolazione non eccedente i 5000 abitanti, venne esteso con r. decreto-legge 3 settembre 1926 a tutti i Comuni del regno.

g. d.

( Alla voce Podestà in : La Parola - Enciclopedia Mensile della Cultura Italiana n° 2 Febbraio - Marzo - Torino, 1927 )