21 Novembre 1926 - Domenica

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NELLA CASA DI GRAZIA DELEDDA A NUORO

 Ho trascorso a Nuoro la primissima giovinezza e non conoscevo la casa della nostra grande scrittrice – scrive Maria ZOLO-SENES nella rivista Lumen (Luglio).
Vi ritorno dopo qualche anno. Nuoro si adagia, fiera e civettuola, tra le verdi colline e le montagne ventose.
La sua caratteristica spirituale è immutata. Come tutti i paesi di Sardegna, attraversa vittoriosamente la sua crisi di passaggio fra le due epoche diverse: fra il disfarsi di una civiltà e l’inizio di un’altra.
Da una parte è l’elemento conservatore, isolatamente ligio a ogni tradizione del passato, duramente retrogrado, chiuso nel suo costume pittoresco, superbo di ogni sua qualità di razza, buona o cattiva.
Esuberante e vincitore si contrappone a questo l’elemento giovane, inquieto, anelante: districarsi dall’ingombro del passato come la farfalla dalla sua vecchia crisalide. Il primo, che rappresenta il mondo artistico dell’opera regionale di Grazia Deledda e della maggiore lirica di Sebastiano Satta, scompare inesorabilmente nella notte misteriosa e affascinante del nostro passato.
La casa. La casa di Grazia Deledda è situata nel Rione di San Pietro. È una costruzione patriarcale di Sardi benestanti, possidenti di “tanche” e di ovili. Cortile selciato con pietre larghe; camere vaste e raccolte, gialle d’antichità; ambienti che sentono di lavori primitivi, di cose agresti e di frutta in maturazione; cucina con largo focolare; orto odoroso di menta. Tutto parla di un’antica esistenza serena.
Ma la vita che ora vi si svolge è più evoluta; anche qui è passata la guerra, è penetrato magicamente il raggio rinnovatore del fascismo. I servi non sono più gli stessi: sanno cantare «Piave» e «Giovinezza» al pari dell’epico «cuncordu»; e le serve hanno un distintivo sul petto e professano, oltre alla cattolica, una fede politica.
La sorte mi conduce in questa casa. La gentile padrona, una ricca Nuorese, che indossa il costume scarlatto, conserva in ogni cosa l’ordine caro alla scrittrice.
Siamo nell’ampia sala da pranzo, semplicissima. Vi spira una quiete riposante, casalinga.
Seduta su una larga ottomana, io ascolto la musica latineggiante del dialetto nuorese. La donna ha la parola colorita, vivace: facondia libera, motti arguti e caustici, fresco umorismo. Esprime giudizi e concetti chiari, che rivelano una coscienza matura, una cultura «interiore» tutta sua.
La donna sarda è ben degna di entrare, in questo suo magnifico risveglio dall’inazione passata, nella vasta corrente del sano femminismo d’Italia e del mondo: una collaboratrice retta e operosa, di sana e incorrotta femminilità.
Grazia Deledda non viene in Sardegna da molto. Pure la sogna sempre: «Nec tecum nec sine te, vivere possum».
La donna mi fa notare una finestra bassa, sul cui davanzale la fanciulla pensosa scriveva i suoi compiti di scuola. E in ultimo mi dice:

-Sa, signorina, quale stanza le ho assegnato?

-Quale?

-La camera ove Grazia Deledda dormiva e scriveva.

La cameretta è posta al primo piano. È chiara, soleggiata e tutta bianca. I mobili occupano lo stesso posto di quando la giovane padrona l’abitava. Un tavolino rettangolare è sempre davanti alla finestra, come allora. Su di esso Grazia Deledda scrisse le prime novelle, temprò, contro ogni barriera negativamente paesana, il suo ingegno virile alle opere che la resero celebre nel mondo.
Una finestra spazia sulle montagne di Barbagia, un’altra guarda sull’orto sottostante. S’ode accanto l’ansito operoso di un molino a vapore, simbolo forse, per il cuore della giovane scrittrice, della futura Sardegna moderna.
La notte è dolcissima; io m’indugio alla finestra. L’Orthobene è vicino, aspro e suggestivo, fasciato di pace e di sogno, come un idolo orientale.
Al mattino la gentile padrona mi conduce nell’orto. Si passa in cucina. Una serva alta e bruna, dal profilo di saracena, stira. L’orto è ancora intriso di rugiada, è piccolo, selvatico, diviso a quadri da stretti sentieri. Resistono al tempo alcune piante educate dalle piccole mani orientali di «Grassiedda». C’è una bella rigogliosa pianta di cui non conosco il nome. La padrona ne appunta un tralcio fiorito sul mio abito bianco. Fiori dai larghi petali candidi, sfumati di rosa: un sogno di fanciulla.

Io vedo Grazia Deledda sposa, giovane e felice, uscire da quella casa…

La vecchia Sardegna dei filistei non potè troncare, immobilizzare le sue ali robuste. Era predestinata. Ed ella uscì dal mondo, giovane e degna lampadofora d’Icnusa, a portarvi il profumo, l’anima della sua terra.

(Tratto da : Minerva - 16 Agosto - Rivista delle riviste - pag. 628 - UTET,1926 )