Massimo D’Azeglio
e il palio di Siena nell’anno 1858
S’era nel ’58e alla vigilia delle feste di Luglio, certi scolari dell’Università domandarono al loro professore di diritto, Giovan Battista Giorgini, se fosse vero, com’era corsa la voce, che Massimo D’Azeglio veniva a Siena a vedere il Palio.
- Mah!- rispose sorridendo il Giorgini – voialtri senesi, già, siete tutti matti!-
Queste parole furono ripetute per ogni canto della città; e l’Azelio venne davvero.
Gli scolari andarono a riverirlo in casa Giorgini, ma per quanto facessero, non seppero nulla delle segrete cose che si manifestarono l’anno dopo. L’Azeglio fu riservatissimo, non ebbe che sorrisi, e qualche frase simile a questa: “Che gli piaceva di vedere la gioventù italiana sempre così ben disposta”.
Ma per Siena se ne faceva un gran bucinare, con dispetto dagli uni, e con allegrezza dagli altri, quasi l’Azeglio v’avesse portato l’annunzio che per la dinastia lorenese e per il tedesco era sonata, come allora si diceva, l’ultima ora.
Il Palio veniva opportunissimo a dare sfogo a questi umori contrari. Dalla restaurazione del’49 in poi, il Palio, ancora presenti le baionette tedesche che guardavano la Piazza Repubblicana, serviva come mezzo d’aprire il cuore italiano: era il respiro dell’antica libertà sotto la servitù.
Non appena appariva in piazza il leggiadro paggio tricolore dell’Oca (contrada che si estende per tutto l’antico quartiere di Fontebranda), era come un apparire di sole, un battimani infinito a quelle bandiere; e fischi d’odio alla bandiera gialla e nera della contrada la Tartuca: fischi che andavano, già s’intende, a sua Altezza, alle divise bianche ed ai mirti delle aquile imperiali.
Quell’anno, avendoci un ospite così celebre nei fasti patriottici, la picca dei partiti fu estrema. Pei liberali doveva vincere l’Oca a ogni costo e pei contadini la Tartuca, contrada pretina e tutta devota al governo. L’arcivescovo (sua eminenza Mancini, l’amico di Radetzki, a cui aveva pure indirizzato un sonetto frugoniano che incomincia: Salve, o Radetzki!), la proteggeva, e la ricopriva del del segno delle sue tre dita levate in alto.
Per l’appunto quell’anno, alla Tortura era toccato il miglior cavallo, un morello scappatore che neanche le ali dello Spirito Santo l’avrebbero potuto arrivare, tanto appettava di fuga; e poi lo montava uno dei fantini che aveva battuto più picchi, e riportato più nerbate e più allori in Piazza del Campo: un gobbo Seragioli o un gobbo del Ciai, non ricordo bene, ma certo un gobbo bravissimo. Invece l’Oca aveva avuto un cavallo, che soltanto a sbruffarlo bene d’acquavite e ingollarlo d’anguille vive, era sperabile di mettergliun po’ di brio ne’ garetti, ma lo montava Bachicche, eroe anch’esso celebrato più volte dall’epinicio de’ Pindari piazzaiuoli.
Viene il gran giorno: la città è affollata.
Il magnifico Duomo, con le bandiere delle contrade pendenti dalle colonne di marmo bianco e nero, sfavilla di ceri accesi in mezzo all’ombra e all’incenso, echeggia di musica sacra, e mostra scoperto il suo bel pavimento istoriato di profeti e di sibille. Il campanone, dall’alto della torre di Palazzo, suona. Tutto odora di festa per le anguste vie cittadine, che oppongono a quel facile brio la loro nera tetraggine medioevale.
Nel pomeriggio, s’incontrano per ogni via gli alfieri delle contrade, e si crederebbe di rivedere in esse il fantasma della vecchia Repubblica, se talora una faccia terribile da corista non rompesse l’incanto. I tamburi suonano quel vecchio e solenne passo militare che Napoleone fece udire a tutta l’Europa: è uno stamburamento generale per le vie, per le piazze, e che poi va a finire sul prato di Sant’Agostino, dove le contrade si radunano per finir di concludere i loro taciti accordi.
Per quel prato (almeno allora nudo di piante), è tutto un rimescolio di figure quali le dipinse il Pinturicchio su i muri della sagrestia, nella storia di Pio II. Paggi lucenti d’oro (nei quali il popolo volle mostrare la sua ricchezza), coi capelli inanellati e le insegne della regalità; alfieri snelli dalla maglia variopinta e la penna al berretto; fantini che ondeggiano sul destriero, cavalli bizzarri condotti a mano dal barbaresco;duci o consoli con la visiera alzata, il busto di ferro, la spada in mano, e la cicca in bocca; una mobile selva di bandiere e pennacchi: un saettamento continuo di sguardi biechi, d’occhiate furtive, sospettose e d’intesa.
Si riprende lo stamburare, e le contrade, ciascuna col proprio duce e col fantino, scendono nella piazza che mormora e mareggia impaziente.
Nel concavo e rotondo centro di quell’immenso anfiteatro medioevale, il fitto popolo, chiuso in un pendio tra gl’innumerevoli colonnini che limitano intorno la gran via circolare, apparisce quale un confuso brulicame di teste, punteggiato dai mobili cappelli di paglia delle contadine, e dappertutto un palpito di ventagli. I palchi estesissimi che girano intorno la piazza, le finestre, i balconi, tutto è mobile e gremito di teste e di visi.
A questo fittume così diffuso e irrequieto, contrasta di sopra la lucida pace del cielo che non ha nubi. Su i tetti e i merli dei palazzi gotici color rame, risplende il sole presso al tramonto, come un grand’occhio pacifico, pieno di salute e di gioia. Lassù, presso l’ultimo cornicione del Palazzo della Repubblica, sfavilla, in un gran disco celeste, a lettere d’oro raggianti, il nome di Cristo, vero fondatore del Comune medievale. E le rondini si perdon lontano o volteggian intorno alla gran torre, da cui si scorge tanta campagna, e che suona finalmente, lentamente, come nei giorni ordinari, le sette pomeridiane.
Un vasto mormorio di sollievo, quasi un immenso respiro, sale su dalla piazza, dove incominciano ad inoltrarsi, sboccando dalla buia Via del Casato, le variopinte contrade a tamburi battenti, a bandiere spiegate.
Gli alfieri le drappeggiano, le rivoltano, se le passano sotto gamba, se le fanno flottare attorno la vita, le lanciano al cielo e le ripigliano per l’asta con destrezza infallibile. In breve la gran piazza rotonda si riempie tutta di questo moto festivo e gentile, di questo svariatissimo scorrere di colori, di questo volare e rivolare agile d’insegne delle diciassette contrade che procedono in giro, rullando tutte i loro tamburi. Hanno tutte il loro paggio maggiore, o il figurino, un adolescente dalla capigliatura lunga, l’abito bene attagliato, che procede innanzi con dignità signorile, e la mano sull’elsa dello stiletto. I fantini a cavallo, ciascuno in mezzo alla propria contrada, crollano le penne dell’elmo, come Orlandi e come Rinaldi. Il barbaresco li segue col cavallo su cui dovranno correre il Palio. Il Caroccio viene da ultimo, tentennando armi e bandiere con fragore solenne.
Intanto tutta la piazza, come un’anima sola che riempia tutto il cielo sereno d’un grido solo, urla, applaudisce alla bandiera tricolore dell’Oca; la bandiera che ricorda i morti di Curtatone e di Montanara. Suonano quattro bande, ma quel grido quasi le copre. Non si sentono che rullare i tamburi. Dal vasto centro della piazza scoscesa, dai palchi che la circondano lungamente, come fitte e mobili siepi di petti e di visi; dalle finestre, dai tetti, e persino dalla cima altissima della torre, dove pende il gran campanone, tutto è animato, tutto grida, fischia, echeggia: dovunque è un balenare di visi e di mani, un tumulto di voci, un accennar di ventagli, un alzar di cappelli e di fazzoletti.
Bachicche, quantunque la sua contrada sia tanto ammirata, nondimeno se ne va modesto sul suo ronzino, mentre il gobbo pare non star nei panni. Magro e duro, s’arronciglia i folti e neri mustacchi, e stirando le gambe e gettando indietro la gobba, si rinsacca sul cavallo, ridendo ferocemente e con aria di trionfo, ai fischi indirizzati a lui ed al giallo e nero della Tartuca. Ma finalmente ci siamo: la rotonda via fu spazzata da una carica di dragoni, e ora è tutta netta come un immenso anello pendente tra due masse fitte di popolo: quella in piedi del centro, e l’altra seduta in giro nei gradini dei palchi. I dieci fantini escono dal nero cortile del palazzo municipale, e non più con l’elmo piumato, ma con lo zuccotto, abito di tela in colori, e nella destra un nerbo di bue, galoppano, stringendosi tutti insieme per la salita, e vengono al canapo.
A un colpo di mortaletto, il canapo cade, e i fantini, curvi sul collo del cavallo e i nerbi in aria, si avventano nell’agone come baleni, facendo schizzare la terra gialla di cui è cosparsa la via.
Allora sorge per tutta la piazza un lungo ululato. Si direbbe che non i fantini soli, ma che tutto il popolo sia rapito in giro con essi. Il centro della piazza, voragine incavata come un’immensa conchiglia, è tutto un ribollimento. Saltano, si urtano, si pigiano, si sporgono dai colonnini, al passaggio dei cavalli, e gl’inseguano a gridi. Lo stesso succede nei palchi, dove tutta la moltitudine è sorta in piedi, e sembra che vogliano tutti precipitare di sotto. Gli occhi di tutti sbarrati corrono in giro con i fantini.
“ Via Oca! Via Tartuca! Via Ochina! Via Bachicche! Forza Bachicche! Sant’Antonio! Santa Caterina, reggilo alla voltata! Reggilo sulla spiaggia di San Martino! Bene, gobbo, bene! Dàgli al gobbo! Fermalo! Buttalo nella fonte! Spianagli la gobba! Dagliene sul popone! Ammazzalo!”.
Ma il cavallo del gobbo, in quattro falcate, è passato avanti a tutti, e nell’ululo che lo cinge in quel girone infernale, il gobbo non ode né applausi, né insulti. Sprona, nerba, e vola!... L’altre contrade lo seguono aggrappate con l’Oca in mezzo, e ultima a gran distanza, la Torre, contrada dalla bandiera rossa, e perciò rappresentante allora i repubblicani. Il fantino della Torre rimane sempre più addietro, solo, sicchè il gobbo velocissimo, al secondo giro, ecco l’arriva, e raddoppia di gobba, di nerbo, di sprone, per veder di sfuggirgli, ma non ci riesce. L’altro, più presto, gli si fianca attraverso con il cavallo, gli dà una squassata al morso, lo fa indietreggiare, l’arresta. Comincia allora tra què due una scarica atrocissima di nerbate.
Allora, nell’ululo della piazza, ci fu un’alzata anche maggiore di voci: era un coro infinito che accompagnava l’azione, era un turbine solo che muggiva da tutti i lati, mentre gli occhi di tutti stavano immobili su quei due che seguitavano a flagellarsi.
È tanto l’accecamento e la furia delle nerbate, che il gobbo, volendo riprendere la carriera, difendersi a capo torto e picchiare, perde non so se l’equilibrio o le briglie, e va a battere la gobba già pesta in un colonnino. Allora l’urlo sale alle stelle. Il fantino della Torre, con molta malizia, capitombola anche lui, per le terre, ma non gli vale. Nuovo urlo.
Accorrono i gendarmi, e lo portano in gabbia. Il gobbo feroce si rialza, e rotando gli occhi neri di falchetto infuriato, col viso di cadavere, il nerbo in mano che è stoppa, e tutto ansante, fremente, resta lì appoggiato per un poco al colonnino….
L’Oca tricolore è passata avanti, e vince in mezzo a una frenesia che non ha più fine, mentre tutti rovinano giù dai palchi, e la piazza si rimescola tutta e rincupisce nella dubbia luce crepuscolare.
L’Azeglio, col Giorgini, si caccia in mezzo al tumulto oscuro, e sconosciuto va in Fontebranda. Per più notti da quella strada è bandito il sonno. Si canta, si balla, si suona, si banchetta all’aperto, lungo la via, in una tavola apparecchiata lautamente, e alla quale i posti d’onore sono riservati al fantino e al cavallo. Il cavallo poi, per vari giorni, è condotto in giro a suon di tamburi e sventolìo di bandiere.
Sugli scalini della parrocchia grandeggia una botte enorme in mezzo alla luminara, e ce n’è per tutti. Un bicchiere di quella botte fu pure offerto all’Azeglio. Egli ci ha lasciato, in uno schizzo pieno di vita e di verità, uno di questi episodi di delirio popolare. Il fantino vittorioso è abbracciato, sballottato, baciato; baciano e strozzano anche il cavallo. I ragazzi accorrono a gola aperta, gli uomini ballano, le donne si mettono le sottane in capo per l’allegrezza: tutte le bocche sono spalancate. Sotto il disegno è scritto: “Viva l’Oca! Dio….” cioè con l’aggiunta d’uno di quegli epiteti insani, che quella plebe malsana suol regalare più spesso all’Onnipotente.
Mario Pratesi
(Tratto da : Almanacco del ragazzo italiano-Enciclopedia della vita giovanile Vol I° per l'anno 1926 - Bemporad & F° - Firenze) |