Pirandello: Come nasce un'opera d'arte.
Una curiosa adunanza
Nella sala del Circolo Filologico Milanese, Luigi Pirandello si è presentato al pubblico, pronto a rispondere a qualsiasi domanda gli fosse stata rivolta. Prendiamo dal Corriere della Sera il resoconto della singolarissima riunione.
Pirandello si è seduto al tavolino del conferenziere. Ne ha pochissimo l’aria e l’aspetto. Sembra piuttosto un buon padre di famiglia che sia venuto a dire: “bene, figliuoli, ragioniamola un po’ assieme; c’è qualcosa che ci divide; ci vogliamo bene, ma dobiamo anche parlarci chiaro”. E difatti parla con bonomia, sorridendo, quasi vedesse sé e gli ascoltatori in uno specchio mentre egli parli ed quelli ascoltano e, con quella vena d’umorismo che non bisogna mai dimenticare nell’opera sua e della quale ieri nessuno dei pochi interlocutori ha discusso o ha dimostrato di tenere in conto, considerando che alla fine ciascuno poi la ripenserà a suo modo.
Diciamo, quasi, perché, secondo ha ripetuto ieri e acutamente osservato da tempo, ciascuno di noi se si vedesse ridere o piangere o parlare troncherebbe immediatamente il riso e le lacrime e il discorso. Invece il colloquio s’è svolto per un’oretta tra il Pirandello e cinque o sei dei presenti. Uno di essi ha chiesto la parola quasi per una mozione d’ordine: e cioè, premesso d’ammirare Pirandello più come poeta che come filosofo e che le teorie pirandelliane non sono lontane da quelle presocratiche, ha chiesto allo scrittore di aprire uno spiraglio nella sua realtà di creatore, di rivelare come nasce nel suo spirito l’opera d’arte.
La richiesta ottiene il plauso dell’assemblea e Luigi Pirandello, stringendosi nelle spalle, allargando le braccia e piegando le mani a coppa, risponde di non aver nessuna rivelazione da fare perché impossibile è riferire il mistero della creazione dell’opera d’arte.
“Posso citare un caso – aggiunge – Così è se vi pare è nata da un sogno. Ho sognato, una notte, un cortile angusto, alto come un pozzo, con in alto un pezzo di cielo stagliato: e poco più giù del cielo e della parete vedevo un ballatoio e da questo penzolare una cesta fissata da una corda e una vecchia che seguitava a tirarla su come una secchia dal pozzo. Come poi da ciò sia uscita la commedia non saprei dire. Certo è che io sono sempre partito da un’immagine e non da un concetto per creare l’opera d’arte”.
E’ un’affermazione, questa, notevole. Già il Pirandello prima di iniziare la discussione aveva spiegato le ragioni che lo avevano indotto a preferire ad una vera e propria conferenza un dialogo con il pubblico, che egli invitava a proporgli domande su questioni di teatro o di letteratura o intorno al suo pensiero filosofico. A proposito di quest’ultimo aveva avvertito di non essersi mai assunta nessuna responsabilità filosofica e che se taluni hanno voluto trovare contatti e relazioni con Bergson o col Freud o con altri, è stata però riconosciuta dalla sagacia di taluna critica una unità inscindibile in tutta la sua opera dalla prima novella all’ultima commedia; illazioni se ne possono trovare, ma, nella sua concezione della tragedia immanente della vita, in perenne movimento alla ricerca di una forma che la contenga, nessuna influenza d’altrui pensiero ha subito. La sua attività poi gli impediva di prepararsi ad un tema da svolgere e , del resto, era ben opportuno chiarire qualche malinteso tra la sua opera e il suo pubblico.
Certo la discussione non s’è avviata subito. Quando il Pirandello con questa premessa si è messo zitto ad aspettar la domanda, invece di un’interrogazione ci fu una schietta risata d’imbarazzo. Poi cominciò un signore dall’alto della balconata della sala, a questo ne seguì un altro da una poltrona di prima fila, e un terzo dal fondo sorse dire: “Scusi, signor Pirandello, mi dica un po’…”, provocando una vivissima ilarità.
Discussione sulla realtà.
Ma tra una risata e l’altra la filosofia s’insinuava festosa come una damina in ghingheri. La realtà esiste in noi o fuori di noi? C’è una realtà interna e una esterna o questa seconda esiste soltanto come realtà interna di ciascuno di noi cioè sotto altrettanti e differenti aspetti? Dalla poltrona di prima fila si sosteneva che la realtà esterna esiste; Pirandello ribatteva che non c’è o meglio c’è in quanto e come la vediamo noi. Il pubblico, dietro, rimaneva incerto tra l’essere e il non essere della realtà, benché qualcuno tra esso abbia pensato di aprire qualche finestra per mitigare il caldo dell’ambiente.
Taluno l’ha pregato di dire quel che c’è di creativo nel suo pensiero filosofico che è stato tacciato di negativo; ed egli ha affermato che con esso egli non nega nulla, anzi afferma la mutevolezza continua della verità, che se fosse immutabile vorrebbe dire la morte. Su queste questioni generali della realtà diversa e mutevole e della costruzione della personalità, c’è stato anche chi ha osservato che esse vanno in parte a urtare il senso comune. Ma il Pirandello ha chinato il capo, ha sorriso come a dire: e io che ci posso fare?
Qualche altro, invece, non s’è accontentato della questione generale, ha voluto che il Pirandello mettesse qualche puntino sugli i. Gli ha chiesto, ad esempio, perché ha mutato il finale ai Sei personaggi. E il Pirandello premuroso e paziente:” Poiché le creature dell’arte rimangono, le altre scompaiono, ho fatto sì che gli attori se ne vadano e restino i sei personaggi, tranne uno, la figlia, che esce dall’arte per entrare nella vita”. Su questa commedia un signore ha domandato: “Perché tutti i personaggi hanno la stessa maschera?”. Ma la risposta non è stata neppur necessaria per il fatto che il richiedente ha aggiunto: “Almeno a mio modo di vedere”. E allora, che importa il suo modo di vedere se quello degli altri può essere diverso?
La curiosa riunione ha interessato e divertito. E il Pirandello ha avuto un bell’applauso, stavamo per dire, a scena aperta quando ha parlato del dolore e della gioia e ha detto che è giusto che i personaggi del dolore ragionino, perché soltanto il dolore fa ragionare, al contrario della gioia i cui benefici si pigliano come un diritto.
Mentre il pubblico usciva, dopo aver calorosamente festeggiato lo scrittore, abbiamo udito un giovane dire a un amico: “Insomma è il gioco delle parti: a lui quella di spiegare, a me quella di non capire bene”.
( Tratto da : La Parola - 5 Maggio 1926 - Illustrazione mensile del pensiero parlato Torino, 1926 )