La riforma sindacale e corporativa
“Sostituire nel sistema politico al principio individualistico della democrazia parlamentare il principio organico della rappresentazione corporativa della Nazione” fu questa la mèta che la maggioranza della commissione per le riforme legislative si propose di raggiungere, come è detto nella relazione di cui fui incaricato.
Le riforme costituzionali in Italia avranno forse in avvenire qualche altro sviluppo, e l’ordinamento corporativo, che la legge e il regolamento sindacale provvedono a costituire, dovrà procedere ancora verso la sua definitiva sistemazione e la sua logica unità; ma intanto è sorprendente che, in poco più di tre anni, sia stata ideata e deliberata una riforma politica e sociale così complessa e originale, la quale, quando avrà la sua piena attuazione, porrà l’Italia all’avanguardia delle nazioni civili.
I capisaldi della riforma sono, come è ben noto, a) riconoscimento giuridico dei sindacati professionali; b) disciplina legislativa dei contratti collettivi di lavoro; c) magistratura del lavoro; d) divieto della serrata e dello sciopero; e) riforma degli istituti pubblici di amministrazione economica con la istituzione dei consigli provinciali dell’economia; f) riforma corporativa del Senato. Io mi occupo in questo articolo dei soli punti a) b) e d), degli altri appena di sfuggita, in quanto si ricolleghino coll’argomento del mio scritto.
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Il legislatore italiano, come già aveva proposto la commissione delle riforme, ha respinto il sistema di riconoscimento in blocco o per registrazione quasi automatica degli statuti sindacali, a tipo francese (leggi del 1884 e del 1920) ed invece ha accolto il sistema del riconoscimento caso per caso, cioè per decreto reale, previa verifica delle condizioni richieste dalla legge.
Vi è un punto fondamentale nel quale la nostra legge si distingue da tutte le altre: le associazioni legalmente riconosciute rappresentano tutti i datori di lavoro, lavoratori, artisti e professionisti della categoria per cui sono costituite, vi siano o non vi siano iscritti, nell'ambito della circoscrizione territoriale dove operano; non può essere riconosciuta legalmente, per ciascuna categoria di datori di lavoro, lavoratori, artisti o professionisti che una sola associazione. Vale a dire che lo Stato conferisce a un solo sindacato, tra quelli che possono esistere in una determinata categoria, la rappresentanza giuridica della categoria, dopo aver constatato che si verifichino le condizioni legali per il riconoscimento giuridico e pel conferimento della rappresentanza, come sono stabilite dall'art. 1 della legge.
Nel sistema proposto dalla commissione per le riforme non era esclusa la possibilità che per ogni categoria fosse riconosciuto più di un sindacato, ma l’attività sindacale rimaneva, quasi interamente, circoscritta nei limiti del diritto privato e tutte le attribuzioni di carattere pubblico erano affidate alla “corporazione provinciale”, vero organo dello Stato o ente autarchico istituzionale, costituito dalla rappresentanza di tutti i cittadini distinti a seconda delle loro attività.
Ma se il sindacato diventa esso stesso un istituto di diritto privato, e così accade con la legge italiana, non si concepisce più, non dirò la pluralità sindacale, che non sarebbe esatto, ma la coesistenza di più organi dell’attività dello Stato nel campo sindacale.
Vi sono, a questo proposito, due questioni diverse, l’una fondamentale e l’altra accessoria, l’una di principio e l’altra di metodo.
La questione di principio consiste nello stabilire se lo Stato, in nome della “libertà sindacale”, debba consentire ed anzi garantire la libera moltiplicazione delle associazioni sindacali, più spesso a fine politico che economico ed assistere impassibile ai più aspri dibattiti fra sindacati e sindacati nonché ai tentativi sempre più audaci e fortunati dei sindacati di usurpare le più gelose attribuzioni dello Stato, come l’amministrazione della giustizia negli stessi conflitti di classe.
Lo Stato fascista, che ha rivendicato tutta la sua autorità sugli individui e sulle associazioni particolari, non poteva consentire più oltre l’anarchia e la prepotenza sindacale.
La seconda questione, come dicevo è una questione di metodo. Secondo le proposte della Commissione i sindacati, riconosciuti o non riconosciuti legalmente, avrebbero dovuto coesistere con la corporazione di Stato, in attesa, secondo l’opinione di alcuni, ed io ero tra questi, che la corporazione assorbisse in un secondo tempo i sindacati o più precisamente i sindacati riconosciuti, mentre in un primo tempo questi avrebbero conservato l’autonomia, partecipando però, con grandi privilegi di fronte agli altri, all’attività corporativa.
Col sistema della rappresentanza sindacale al sindacato riconosciuto, sparisce ogni distinzione tra sindacati e corporazioni: sono gli stessi sindacati che diventano organi dello Stato e tendono a formare l’ordinamento corporativo dello Stato, con la loro unione spontanea in federazioni e confederazioni e coi nuovi organi statali di collegamento fra le organizzazioni nazionali dei vari fattori della produzione. A questo proposito l’Ufficio Centrale del Senato nella sua relazione osserva: “La legge avrà salutare effetto soltanto se saprà attirare al sindacato unico il maggior numero di interessati nella professione, in guisa che questo maggior numero consideri il sindacato unico come la sua vera guarentigia e il suo baluardo e possa partecipare alla sua attività e al suo governo, alla nomina degli organi sociali e alla designazione dei rappresentanti negli enti e nei consigli dello Stato”. Secondo me è desiderabile, ma non è essenziale pel successo della legge che il sindacato riconosciuto richiami a sé tutti gli appartenenti alla categoria. Il numero conta, ma non è tutto, e ad ogni modo già prima che la legge accogliesse il principio della rappresentanza sindacale, questa di fatto era passata ai sindacati nazionali, avendo gli altri perduto ogni credito ed ogni potenza.
La riforma non ha introdotto il sindacato obbligatorio, poiché lavoratori e datori di lavoro conservano tutta la loro libertà di iscriversi a questo o a quel sindacato, come vogliono, o a nessuno se preferiscono. Le corporazioni coattive di Roma e di Bisanzio, e le stesse corporazioni medievali erano uniche e obbligatorie, invece nel sistema accolto dalla legge italiana non si ha né l’obbligatorietà, né il monopolio sindacale o corporativo. La pluralità sindacale non è eliminata dalla legge; è consentita, ma non glorificata, incoraggiata e potenziata secondo i principi della dottrina liberale. La pluralità rimane, ma la piena esistenza giuridica e quindi la rappresentanza sindacale sono riconosciute dallo Stato ad un solo sindacato per ogni categoria. Pluralità ed uguaglianza sindacale non sono la stessa cosa. Si comincia a distinguere ed era tempo. Questo è il principio nuovo ed è certamente la negazione della male intesa “libertà sindacale”, cioè della libertà di contrasto e di lotta fra i sindacati di ogni partito e di ogni colore, in base alla convinzione che alla concorrenza fra i sindacati operai sia la condizione necessaria ed unica della elevazione morale e materiale delle classi lavoratrici e che l’unico dovere dello Stato consista nel garantire “la possibilità giuridica della concorrenza” fra lavoratori e lavoratori, fra sindacati e sindacati e la libertà dei contrasti fra imprenditori e lavoratori.
Siamo agli antipodi col concetto dello Stato fascista, il quale non intende rinunziare in nessun momento alla sua personalità e al suo programma d’azione nazionale. Perciò nelle questioni del lavoro ben lungi dal rimanere in disparte, senz’arma e senza moto, lo Stato afferma ed attua la sua volontà di far prevalere su tutti gli interessi in contrasto il solo interesse nazionale. Sia organo dello Stato, per l’esercizio di questa sua attività, il sindacato prescelto, cioè quello giuridicamente riconosciuto, o sia invece, come proponeva la maggioranza dei Diciotto, la corporazione istituzionale, comprendente tutti gli iscritti alla categoria, la differenza consiste soltanto nell’organo e non nella funzione che lo Stato intende esercitare, differenza non trascurabile, ma transitoria, come diremo, che già tende a scomparire.
Né la funzione dello Stato è di carattere puramente economico, anche se si tratta di conflitti economici. Lo Stato ha una missione che è prima di tutto politica ed etica, né può dimenticarlo mai, quindi non può astenersi mai. Nei contrasti fra i sindacati non può limitarsi a intervenire a fatti compiuti o mentre si stanno svolgendo, per evitare un danno o un maggior danno economico, secondo le stesse meno logiche concessioni del liberalismo transigente. Appunto per obbedire ai suoi fini essenziali e d’ordine superiore lo Stato ha il dovere di prevenire, più che reprimere, e di predisporre quegli ordinamenti che valgano a rendere minimo il contrasto fra gli elementi sociali e consentano, in ogni caso, la prevalenza dell’interesse economico collettivo su quello dei singoli e dei gruppi e la conciliazione necessaria fra la convenienza economica e le esigenze morali e politiche. Perché l’interesse collettivo puramente materiale è una contraddizione in termini, non potendosi concepire una collettività politicamente ordinata che non abbia interessi politici e spirituali da difendere e perciò da armonizzare con quelli economici. La riforma pertanto ha un alto significato morale che prevale su tutti gli altri. Per la prima volta lo Stato esce dalla sua colpevole secolare indifferenza e ricollegandosi ad antiche tradizioni italiane, che sembravano spente, intende sottoporre la realtà economica, le cui “leggi” a torto si confondono con le così dette leggi ferree della natura inanimata, al severo ma benefico controllo di un principio etico.
Il sindacato legalmente riconosciuto è lo strumento del quale lo Stato si serve per l’esercizio della sua nuova attività etico – economica. Ogni contrasto è ormai superato fra sindacalisti e corporativisti, né vi sarebbe ragione di farlo rinascere.
L’unità sindacale rappresentante della categoria, per designazione dello Stato, è il breve ponte di passaggio fra il sindacalismo indisciplinato e tirannico del tramontato socialismo e il corporativismo integrale ed istituzionale del Fascismo.
Anche in questo caso il fatto ha preceduto la norma. “Il merito maggiore del sindacalismo fascista, scrissi nella mia relazione, consiste nell’aver tentato per primo la trasformazione storicamente necessaria del sindacalismo di categoria nel corporativismo nazionale, cercando di ricomporre, senza sempre riuscirvi, nell’unità corporativa i disgiunti elementi sindacali. Ma a tanto non può bastare l’iniziativa privata, per quanto ispirata da un alto concetto della solidarietà nazionale. Spetta allo Stato di condurre a termine la grande opera, dando ad essa il suggello e il patrocinio della sua autorità, stabilendo nettamente i confini dell’attività sindacale e rivendicando a se stesso, per delegarli alla Corporazione, ente non più privato ma pubblico, quelle funzioni sovrane, di cui il sindacalismo era riuscito ad appropriarsi durante il regime liberale-democratico.
La legge indica la corporazione integrale come la mèta prossima e necessaria del nuovo sindacalismo. E’ fondamentale l’art. 3: “Le associazioni dei datori di lavoro e quelle di lavoratori possono essere riunite mediante organi centrali di collegamento con una superiore gerarchia comune, ferma restando sempre la rappresentanza separata dei datori di lavoro e quella dei lavoratori, e, se le associazioni comprendono più categorie di lavoratori, di ciascuna categoria di questi”. E’ molto importante quanto aggiunge l’art. 10. Gli organi centrali di collegamento possono stabilire, previo accordo con le rappresentanze dei datori di lavoro e dei lavoratori, norme generali sulle condizioni del lavoro nelle imprese a cui si riferiscono e tali norme hanno effetto rispetto a tutti i datori di lavoro e a tutti i lavoratori della categoria a cui si riferiscono.
Il regolamento ha ben chiarito la natura e le attribuzioni degli organi corporativi. La corporazione non ha personalità giuridica, ma costituisce un organo dell’amministrazione dello Stato. Il presidente o direttore degli organi corporativi è nominato o revocato con Decreto del Ministero delle Corporazioni. Ogni corporazione ha un consiglio composto dai delegati delle associazioni, federazioni o confederazioni che sono per suo mezzo collegate.
E’questo il primo avviamento verso l’ordinamento corporativo. Il concetto animatore non è diverso da quello della commissione delle tre camere, l’attuazione non è naturalmente la stessa.Il collegio corporativo o corporazione provinciale era la riunione delle tre camere, composte dai rappresentanti di tutti gli iscritti alle categorie o professioni di cui ciascuna camera era costituita. Si aveva così la corporazione integrale e totalitaria; ente autarchico istituzionale, autonomo, ma intimamente collegato col potere esecutivo dello Stato e sottoposto al controllo gerarchico del Governo. Col sistema accolto dalla legge avremo invece il collegamento statale fra i sindacati nazionali riconosciuti, come rappresentanti della categoria e perciò investiti d’una funzione pubblica o fra le federazioni e confederazioni dei sindacati. Il collegamento avverrà, o meglio potrà avvenire, per “un determinato ramo della produzione o per una o più determinate categorie d’imprese”. Saranno dunque costituite molteplici corporazioni, i cui poteri e le cui attribuzioni saranno volta per volta determinate dal decreto di costituzione. Io penso che, dopo un primo periodo di esperimento, le singole corporazioni dovrebbero formare un unico organismo con le associazioni nazionali, le federazioni e le confederazioni, le quali per ora rimangono disgiunte, in quanto possono, ma non debbono, essere collegate, per ogni singolo ramo della produzione, dagli organi corporativi dello Stato.
La collaborazione fra le classi non richiede soltanto l’accordo fra i fattori della produzione in una determinata attività, ma più ancora l’unione di tutte le attività per la conciliazione degli interessi particolari in quello generale. E’ questo l’ordinamento corporativo. I conflitti e i dissensi fra le attività nazionali non sono meno temibili, se pure meno appariscenti, di quelli fra i fattori della produzione.
D’altra parte la corporazione, da un semplice elemento della amministrazione dello Stato, quale si presenta per ora, il che è quanto dire un ufficio a inevitabili tendenze burocratiche, potrebbe, secondo me, utilmente trasformarsi, dopo le prime prove, in un organismo a sé stante, fornito della sua personalità, per quanto sottoposto alla vigilanza e al controllo dello Stato.
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La legge (e questo è un punto fondamentale) consente alle associazioni legalmente riconosciute la facoltà di imporre a tutti i datori di lavoro, lavoratori e professionisti che rappresentano, vi sieno o non vi sieno iscritti, un contributo annuo e dispone che un decimo del provento di tali contributi debba essere annualmente prelevato e devoluto a costituire un fondo patrimoniale avente per iscopo di garentire le obbligazioni assunte dalle associazioni, in dipendenza dei contratti collettivi da esse stipulati.
Avremo così, per la prima volta, la responsabilità patrimoniale effettiva delle associazioni, per gli obblighi assunti in nome di tutti gli iscritti alla categoria. Avremo anche la responsabilità individuale dei datori di lavoro e dei lavoratori verso l’associazione che ha stipulato il contratto, anche nel caso in cui i singoli non appartengano all’associazione. E’ la conseguenza logica dell’unica rappresentanza sindacale.
Il regolamento ha ben chiarito la natura della responsabilità delle associazioni derivante dai contratti collettivi: responsabilità pei danni provenienti dall’inadempimento degli obblighi assunti in proprio nello stesso contratto, responsabilità per l’inadempimento di coloro, soci o non soci, che vi sono vincolati, in quanto le associazioni abbiano omesso di fare quanto è in loro potere per ottenere l’osservanza. Nel caso però che nel contratto collettivo sia esplicitamente convenuto che l’esecuzione del contratto è garantita dall’associazione, questa risponde in proprio, in qualità di fideiussore solidale. Qualcuno teme gli effetti economici del nuovo regime sui costi e sui prezzi dei prodotti ed esalta i presunti benefici effetti della concorrenza ideale e teorica, senza avvedersi che così sposta per lo meno i termini del problema.
E’ forse preferibile, bisogna domandarsi, che il prezzo del lavoro, elemento del costo di produzione, sia imposto, come accadeva nel triste periodo dal quale il Fascismo ci ha liberati, da un piccolo gruppo di organizzati e la Nazione indifesa debba curvare il collo? La concorrenza, di cui si favoleggia, non esiste più; anzi non è mai esistita quella concorrenza bilaterale e perfetta. Dell’offerta e della domanda di lavoro, da cui deriverebbe, per legge naturale, l’adattamento automatico del salario al contributo di produttività del lavoratore. Esisteva una volta, agli esordi del capitalismo moderno, la concorrenza dei lavoratori isolati e disorganizzati e la conseguenza ne fu, per un certo tempo (che alcuni economisti, anche qualcuno dei maggiori, scambiarono con l’eternità), la depressione del salario fino al minimo necessario della vita. Nessuno vorrebbe ritornare a quel tempo: sarebbe uno spaventoso regresso morale ed economico, né la storia ripercorre mai, anche se può parere il contrario, la strada già percorsa e abbandonata.
Oggi non rimane che la scelta tra due sistemi: il primo è la “libera” lotta tra i gruppi organizzati, col trionfo inevitabile del più forte, con la sovrapposizione violenta dell’interesse privato sull’interesse collettivo: il secondo è l’intervento dello Stato per garantire la difesa degli interessi personali e per reprimere, anziché sanzionare (come sinora si è fatto con ingenua compiacenza) la prepotenza del vincitore, che non è sempre il più degno e la cui convenienza individuale non coincide sempre, come insegnerebbe il fatalismo economico, con la convenienza collettiva o nazionale.
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Tutte le controversie relative alla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro sono di competenza delle Corti d’Appello funzionanti come magistrature del lavoro.
Della magistratura del lavoro altri dirà, e con ben altra autorità, in questa stessa rivista. Io voglio soltanto richiamare l’attenzione sui rapporti, non ancora ben chiariti, fra la nuova magistratura e la nuova disciplina legislativa dei sindacati. Poteva rimaner dubbio, stando alla semplice parola della legge, se la Magistratura avesse il diritto di intervenire direttamente nei conflitti di lavoro o dovesse attendere che almeno una delle parti le sottoponesse la controversia e ne provocasse il giudizio.
Giustamente il sen. D’Amelio ebbe ad osservare che conveniva chiarire meglio la portata dell’art. 16. Sarebbe opportuno, egli scrisse, precisare che il Pubblico Ministero ha sempre la facoltà di sottoporre di sua iniziativa la controversia al magistrato, quando le parti si mostrino neghittose o peggio ancora, rifiutino di adirlo.“Quando il rappresentante della legge avrà la potestà di sottoporre alla nuova magistratura del lavoro i conflitti, anche indipendentemente dall’iniziativa delle parti, allora si potrà dire che si tratta davvero di un giudizio obbligatorio”. Ora il regolamento ha risolto ogni dubbio. L’art. 68 infatti dispone che quando l’interesse pubblico lo esiga, l’azione può essere anche esercitata dal Pubblico Ministero. In tal caso l’associazione sindacale interessata può intervenire nel giudizio. E’ nello spirito della legge di evitare il giudizio del Magistrato, ogni volta che ciò possa avvenire senza danno, anzi con vantaggio pubblico. L’accordo amichevole è preferito, se sia possibile ottenerlo. Infatti, prima della decisione, è obbligatorio il tentativo di conciliazione da parte del presidente della Corte (art. 13) ed è mantenuta la facoltà di “compromettere in arbitri” le controversie relative alla disciplina dei rapporti collettivi del lavoro. Tutto ciò conferma che l’intenzione del legislatore è di promuovere l’accordo spontaneo fra le parti e di evitare la controversia giudiziaria.
Ma perché si formi lo stato d’animo che consenta di confidare nell’accordo amichevole fra le parti e di evitare l’intervento del Magistrato, è necessario che la disciplina giuridica dei sindacati faccia capo all’ordinamento corporativo propriamente detto. Questa è veramente la condizione essenziale, io penso, per il pieno successo della riforma in tutte le sue parti.
Il sindacato divide, la corporazione unisce, come ben comprese fino dai primi momenti, il sindacalismo fascista, che appunto per ciò si chiamò e divenne, e sempre più sarà, corporativismo. La corporazione ricongiunge, pur mantenendoli distinti, gli elementi della produzione, capitale intelligenza, lavoro; li abitua a riconoscere, giorno per giorno, che gli interessi comuni prevalgono su quelli divergenti e li educa a sottomettere l’interesse particolare del gruppo all’interesse generale della Nazione. Perché io parlo di “ordinamento corporativo”, cioè di un sistema armonico di corporazioni, seconda la tendenza che sta attuandosi nel corporativismo fascista, e non di corporazioni disgiunte e antagonistiche, come quelle del medio evo. Chi teme un ritorno al medio evo e perciò ha in sospetto la corporazione, vive fuori dal mondo. Il pericolo non esiste per infinite ragioni, due soprattutto più evidenti delle altre. La vecchia corporazione garantiva e disciplinava nei suoi statuti il particolarismo e l’egoismo di categoria; le nuove corporazioni nazionali sono sorte per un fine perfettamente opposto, cioè per dominare l’egoismo di classe e per unificare la società italiana.
Nel medio evo la corporazione si contrapponeva allo Stato e persino ne usurpava i poteri. Oggi lo Stato domina le corporazioni e se ne vale, come di organi propri, per l’esercizio della sua sovranità nel campo economico e sociale.
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Il sindacato riconosciuto è il nuovo ente di diritto pubblico che la legge ha creato. La nomina o la elezione dei presidenti o segretari delle associazioni deve essere approvata con regio decreto, se si tratta di associazioni nazionali, interregionali e regionali, o con decreto del Ministro competente se si tratta di associazioni provinciali, circondariali e comunali (art. 7). Queste ultime sono sottoposte alla vigilanza del prefetto e alla tutela della Giunta provinciale amministrativa, se si tratta di associazioni comunali, circondariali o provinciali, dal Ministero delle Corporazioni negli altri casi (art. 23). Sono soggetti all’approvazione della Giunta o del Ministero, a seconda dei casi, i bilanci, gli atti che implicano mutamenti patrimoniali, le spese che impegnano il bilancio per più di quinquennio, i regolamenti e gli organici del personale, i regolamenti per la esazione dei contributi, i pagamenti ordinati sul fondo di garanzia degli impegni contrattuali (art. 30). Come dunque si è potuto dire che il sindacato riconosciuto si approprierà i contributi e ne disporrà “senza controllo di sorta”?
Uno dei critici più autorevoli della riforma sindacale dovette riconoscere nella discussione del Senato che la magistratura del lavoro “una istituzione essenzialmente nuova e nazionale, duplice titolo che deve renderla particolarmente simpatica al nostro sentimento di italiani e di studiosi”. Vuole pertanto la logica che non potendo funzionare la magistratura senza l’obbligo di adirvi, quando la conciliazione spontanea non riesca e senza l’obbligo di sottomettersi alla sentenza del magistrato, siano stabilite le pene pei datori di lavoro, pei lavoratori e pei dirigenti delle associazioni che rifiutano di eseguire le decisioni del magistrato e preveduto il caso che alla mancata esecuzione si aggiunga, da parte dei colpevoli, la serrata o lo sciopero, applicando le disposizioni del Codice Penale sul concorso dei reati e delle pene.
Ma la serrata e lo sciopero, si obietterà, sono puniti anche quando non susseguono alla sentenza del magistrato. Certamente, e deve essere così, per non compromettere tutto il sistema della legge, la quale si metterebbe in contrasto con se stessa se consentisse la estrema manifestazione della autodifesa di classe, dopo avere dato vita a un ordinamento giuridico che ne rappresenta la negazione e l’abolizione.
Datori di lavoro e lavoratori debbono abituarsi a rispettare i contratti solennemente stipulati; per l’interpretazione c’è il Magistrato; per le modificazioni ai contratti vigenti e pei nuovi patti valgono le associazioni riconosciute e in caso di conflitto il Magistrato. Non c’è più posto per la violenza privata, né degli imprenditori né dei lavoratori; quando si verifica, è giusto che sia punita. Anche in questa sua parte la riforma ha un grande significato morale.
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L’ordinamento corporativo, che si va sostituendo e consolidando, dovrà essere più intimamente collegato coi nuovi istituti pubblici di amministrazione economica, i Consigli economici provinciali. Ottimo il concetto di una rappresentanza unica delle varie attività economiche regionali; felicemente superato finalmente il pregiudizio inconsistente e dannoso di un preteso dualismo o di una qualsiasi divergenza di interessi fra l’agricoltura e l’industria, le due attività economiche, non sempre distinguibili, che sempre più si vanno integrando e congiungendo.
Altro grande merito della legge sui Consigli provinciali è quello di avere accolto la rappresentanza del lavoro. Non vedo però come il lavoro possa formare una sezione autonoma, la quarta, insieme colla previdenza sociale: unione in verità molto eterogenea. Sarebbe stato meglio, secondo me, seguire la traccia indicata dalla Commissione per le riforme, la quale aveva distinto, in ogni categoria, gli elementi da cui è costituita, cioè gli imprenditori, i tecnici ed impiegati amministrativi e gli operai, i quali a loro volta avrebbero potuto essere distinti in qualificati e non qualificati, nelle industrie ove la diversità è manifesta. “In tal modo, osserva la relazione, nella corporazione i tecnici ed i lavoratori avranno la loro rappresentanza proporzionale non al numero, ma all’importanza della funzione sociale. La classificazione dei lavoratori in qualificati e non qualificati favorirà la selezione degli operai più capaci e produttivi.”
D’altra parte questo isolamento del lavoro dalle attività economiche cui partecipa può sembrare in contrasto con l’unità dell’ordinamento corporativo e con lo stesso spirito della riforma sindacale, la quale tende, come abbiamo visto, a ricongiungere e armonizzare gli elementi della produzione e di tutta l’attività nazionale. Se il regolamento non potrà, come è chiaro, contradire all’art. 4 della legge, che ha istituito la sezione autonoma del lavoro, io mi auguro che l’autonomia scompaia in un secondo momento, anche come effetto necessario della costituzione, per ogni industria, di quegli organi di collegamento che si propongono di riunire i fattori della produzione e di iniziare la vera attività corporativa. Io vedo in questo punto una contradizione che dovrà sparire. Il lavoro, ricongiunto ormai all’intelligenza e al capitale, come può esserne nuovamente staccato nell’esercizio di un’attività economico-amministrativa che con quella corporativa ha così intimi rapporti?
Quanto ai limiti fra l’attività corporativa e le attribuzioni dei Consigli provinciali sembrano definiti dall’art. 3 della legge sui Consigli, ma saranno meglio chiariti dal regolamento. La lunga enumerazione dell’art. 3, per quanto suscettibile di amplificazione, come effetto di “leggi e decreti speciali”, non estende il campo di attività dei Consigli molto al di là di quello riservato alle leggi attuali alle Camere di Commercio, ai Consigli agrari provinciali e alle varie Commissioni forestali, di agricoltura e zootecniche, ormai abbandonate.
Resta un’amplissima zona, la più importante sotto il punto di vista dell’economia della produzione, nella quale gli organi dell’ordinamento corporativo potranno esperimentare grado a grado la loro attività. Spetta ad essi (art. 44 del regolamento) non soltanto di conciliare le controversie che possono sorgere fra gli enti collegiali, ma anche di promuovere, incoraggiare e sussidiare tutte le iniziative delle associazioni sindacali intese a coordinare e meglio organizzare la produzione, di istituire uffici di collocamento, di regolare il tirocinio o garzonato. E’ questa una semplice esposizione dimostrativa; altre facoltà potranno venir dopo. Vi è in germe tutta quella complessa attività corporativa che la commissione delle riforme affidava alle corporazioni istituzionali. Io auguro che l’esperienza consigli nuovi sviluppi, ma prima vorrei che corporazioni e federazioni si congiungessero in un solo organismo, in una sola persona. Intanto, con la legge italiana, il corporativismo si afferma in piena antitesi col sindacalismo tradizionale.
Il vecchio sindacalismo non aveva davanti a sé che il “conflitto”, non vedeva che contrasti e lotte, anzi si studiava di provocare la discordia fra le classi e di acuirla, proprio come un dovere professionale.
Il nuovo corporativismo sorge col programma di combattere il conflitto, di promuovere l’accordo fra tutte le categorie e fra tutti gli elementi di categoria; esso non vuole soltanto evitare ogni dissenso che possa nuocere alla Nazione e menomarne la potenza e il prestigio, ma vuole anche promuovere tutti quegli accordi fra le varie industrie e fra le singole aziende, nel senso di ogni industria, che ancora si desiderano e si attendono per l’unità, per la grandezza e per l’espansione dell’economia nazionale. Il corporativismo fascista, in questo sopra tutto, deve distinguersi dal sindacalismo delle vecchie scuole e dei vecchi partiti. La sua azione deve essere non soltanto negativa, ma anche e sopra tutto positiva.
Evitare il conflitto è molto, ma non è tutto; bisogna eliminare stabilmente gli eccessi dell’individualismo economico, che saranno sempre un grave pericolo per l’economia nazionale. La libertà delle iniziative economiche deve pure incontrare i suoi confini. Lo Stato non può sostituirsi all’iniziativa privata, ma ha il dovere di moderarla e di dirigerla. Se fino ad oggi ha fallito in questo suo compito si deve a difetto di indirizzo e a mancanza di organi. Il socialismo, anche quello cattedratico, consigliava allo Stato di sostituirsi all’iniziativa privata, più che altro per avvantaggiare certi gruppi contro certi altri e non tanto, come qualche volta, ma eccezionalmente, può convenire, per meglio difendere l’interesse nazionale. L’iniziativa privata, di regola, non può essere senza danno sostituita, ma il confondere la libertà privata con l’indisciplina, confinante con l’anarchia, è il massimo errore dell’economia liberale.
Difetto di indirizzo dunque, ma non soltanto. Mancavano allo Stato sino ad oggi gli organi adatti per l’esercizio della sua attività, tutt’altro che secondaria, di integrazione e di coordinamento delle iniziative private. L’organizzazione corporativa sta riparando ormai alla grande lacuna ed è vanto nostro di avere preceduto, anche in questo, tutti gli altri paesi. Nella stessa Inghilterra i sindacati continuano ad armarsi contro lo Stato e la violenza delle masse organizzate esplode senza ritegno.
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Non dirò della riforma costituzionale; non è mio compito. Ma voglio esprimere tutto il mio compiacimento per le modificazioni annunciate al progetto di riforma del Senato. Tutti i senatori continueranno ad essere di nomina regia, alcuni scelti dal Re, come oggi, nelle attuali categorie e nelle nuove che forse saranno aggiunte, altri designati, per un periodo di nove anni, dalle corporazioni, ma sempre nominati dal Re. La temporalità della carica per una parte dei senatori e la designazione delle corporazioni sono certo due riforme importanti, ma è anche più importante che il principio della scelta dall’alto non sia menomato ma soltanto contemperato dalla designazione corporativa e meglio sarà se, come auguro, la designazione avrà il valore di una semplice indicazione, senza obbligo di nomina, e se la scelta potrà cadere, entro le corporazioni, anche sui non designati. Non avremo ad ogni modo un altro elezionismo, quello senatoriale, con tutti i mali, e peggio ancora, dell’elezionismo camerale.
“La rappresentanza sindacale elettiva, così ebbi a scrivere altrove, presenta il pericolo, inerente ad ogni sistema elettivo, che il numero si sovrapponga alla capacità; appunto, perciò, conviene non già istituire un Parlamento sindacale accanto al Senato, ma innestare la rappresentanza sindacale nel Senato, contemplando, anche nella nomina dei rappresentanti sindacali, il metodo elettivo con quello della selezione dall’alto e riunendo in una sola grande assemblea le rappresentanze legittime degli interessi e dei valori nazionali, un’assemblea che diverrebbe il vero e fedele specchio della vita intellettuale ed economica della Nazione”.
Ma per un’altra ragione sarò lieto se la riforma corporativa del Senato si manterrà entro questi limiti ristretti: perché ho ferma fiducia che in un secondo momento, che già si annunzia, si ripresenterà il problema della Camera elettiva. Se il Senato diverrà un’assemblea, in parte almeno, corporativa, dovrà considerarsi se e come il principio corporativo della rappresentanza si possa conciliare con la persistenza di una Camera eletta a suffragio universale illimitato e disorganizzato. Parlamentarismo e corporativismo sono in aperto contrasto.
Quando il problema della Camera sarà risolto, la riforma costituzionale del Fascismo sarà compiuta. Allora lo Stato nazionale organico, di cui le fondamenta sono state gettate potrà dirsi finalmente costruito e prenderà il posto una volta per sempre del vecchio Stato democratico e parlamentare, il quale continua ad offrire di sé così triste spettacolo ovunque e riesce per ora a sopravvivere alle ragioni storiche della sua esistenza.
Gino Arias
(Tratto da “Nuova Antologia – Rivista di Lettere, Scienze ed Arti” - del 16 giugno 1926 – Anno 61° - fascicolo 1302 – Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tumminelli, Roma)
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