Ritratto della Regina Margherita
(20 novembre 1851 – 4 gennaio 1926)
La Regina Margherita, che è scomparsa dalla scena del mondo, rimane – scrive Brada nella Revue Hebdomadaire del 16 gennaio – una grande e nobile figura che deve essere salutata con rispetto e ammirazione.
Le nozze. Nel 1868, Torino, la città del Toro d’oro, era in festa: abbandonata e triste da quattro anni, aveva ripreso il suo aspetto vivo di capitale; vi affluiva gente da tutti i punti della penisola: diplomatici e ministri di Stato riempivano gli alberghi; l’animazione delle vie era estrema, i portici erano affollati, e il popolino mostrava un viso felice, perché il fiore della sua terra, la Principessa Margherita, figlia del defunto Duca di Genova, stava per sposare suo cugino, il Principe di Piemonte, erede del trono. Mai unione principesca fu circondata da tanta e sì spontanea simpatia; e in quell’atmosfera d’amore la giovanile grazia della fidanzata eletta fioriva in tutta libertà, e rispondeva ai saluti amorosi del popolo con un sorriso che veniva dal cuore.
La Principessa Margherita aveva allora sedici anni, e fino a quel momento, in cui fu proiettata in piena luce, aveva menato l’esistenza severa e claustrale che è tradizionale delle figlie di Casa Savoia. L’avevano abituata ad alzarsi presto, e due giorni appena prima delle sontuose nozze la Principessina, ancora fanciulla d’aspetto, accompagnata dalla contessa Gattinara, dama d’onore di sua madre, la Duchessa di Genova, saliva alle sei del mattino a Superga, per ricevere la Santa Comunione nella Basilica in cui dormivano i Principi della sua illustre famiglia.
Non si videro mai nozze reali più magnifiche: la sposa, nella veste a strascico di raso bianco ricamata di margherite d’oro, era una delizia per gli occhi, e durante la lunga cerimonia non ebbe un movimento che non fosse semplice, nobile, grazioso.
Accanto a lei stava in piedi sua madre, vestita pure con vesti sontuose, ma ricamate d’argento. A destra dello sposo stava dritto, immobile, araldico, Vittorio Emanuele, con le mani giunte sull’elsa della sciabola, e volgeva intorno i suoi grandi occhi.
Nel coro stavano i parenti degli sposi e i principi stranieri. La dolce e bianca principessa Clotilde Napoleone, simile a un’orante di messale, umile nei ricchi ornamenti e piena di sovrana dignità; la Regina di Portogallo, sua sorella, tutta in velluto turchino, adattatissimo alla sua capigliatura di rame, col mantello reale allacciato sulle spalle, graziosa e sorridente; il principe Napoleone, così decorativo; il principe Reale di Prussia dalla faccia benigna; e in una tribuna un fanciullo di tre anni, vestito di bianco, il principe ereditario di Portogallo, destinato anch’egli a cadere sotto il ferro d’un assassino. A sinistra del coro, in uno spazio riservato e chiuso, stavano in abito di corte le mogli dei ministri e i collari dell’Annunziata, che formavano un gruppo brillante; a destra, dominante l’altare, la cappella del Santo Sudario, dove erano raggruppate le mogli dei diplomatici. La vecchia chiesa di San Giovanni riboccava di gente.
La principessa di Piemonte. I giorni che seguirono le nozze videro la bella farfalla, appena uscita dalla crisalide, aprir le ali e spiccare il volo con grazia senza pari… Le feste si succedevano alle feste: balli, tornei, ricevimenti. Nel primo ricevimento concesso al corpo diplomatico, la nuova Principessa di Piemonte dispiegò tutta la sua grazia, parlando a ciascuno nella sua lingua: francese, tedesco, inglese, e con la più sicura scioltezza: la si sarebbe creduta abituata da dieci anni a tener circolo.
Al gran ballo ufficiale dato al palazzo reale, ella entrò appoggiata al braccio del Re Vittorio Emanuele, ed era un contrasto impressionante fra quella bionda poetica Lorelei vestita di tulle vaporoso secondo la moda di allora, e la figura del Sovrano, così rude, così severo d’aspetto, coi baffi formidabili, lo sguardo fisso, i capelli irti sulla testa rotonda.
La Principessa non aveva affatto l’aria di temere l’Augusto Suocero, e dolcemente, trionfante, avanzava fra le riverenze femminili e maschili.
L’etichetta era ancora rigorosa alla corte dei Savoia, e la giovane sposa ebbe ancora a sopportare molte corvées. Le sopportò generosamente, da persona risoluta a non occuparsi delle proprie comodità particolari, ma decisa a compiere fino il minimo dei doveri che le incombevano.
Uno splendido torneo, in cui la sposa apparve veramente come una signora d’amore, chiuse quelle feste con uno splendore abbagliante.
A poco a poco Torino si vuotò e la coppia regale emigrò a Monza. Ma fin da quell’epoca e nonostante l’incenso che le si spargeva sì largamente intorno, la Principessa di Piemonte mise in opera la disciplina morale di cui era stata nutrita e risolutamente dedicò le sue mattine a studiare la musica, la letteratura italiana prima, la letteratura straniera poi, a diventare quella donna perfetta che doveva essere ammirata da tutti coloro che ebbero la fortuna e l’onore d’avvicinarla. Per la precoce saggezza e per la cultura intellettuale, la Principessa Margherita ricorda in molti lati l’illustre avola di cui portava il nome, Margherita di Francia, figlia di Francesco I; la quale nel contratto di nozze riportava il Piemonte ai Principi legittimi non appena avesse dato un erede al suo sposo, il Duca Emanuele Filiberto, detto Testa di Ferro. L'erede non si fece aspettare e fu Carlo Emanuele il Grande, che regnò cinquant'anni.
La futura prima Regina d'Italia non dimenticò gli esempi dati alle antiche Duchesse di Savoia, che non erano come lei, nate nella terra in cui vivevano e regnavano, e segnatamente della Duchessa Iolanda sorella di Luigi XI, e di Chrestienne di Francia figlia di Enrico IV.
La Principessa Margherita diede sempre prova di un tatto infinito. D'altronde i cuori si piegavano naturalmente sotto il giogo della seduzione, a cui era difficile sottrarsi. E' noto che il Carducci, fiero repubblicano, non resisté all'influenza della Principessa di Savoia, ardente patriota anch'essa, che lodava le poesie di lui e le sapeva a memoria.
La Regina. Diventata regina ancor giovane, Margherita di Savoia dimostrò quanto valeva, e si conquistò l'amore appassionato dei suoi sudditi, il rispetto e l'ammirazione di tutti. La giovane Regina era l'incarnazione di quanto la sovranità ha di più amabile, di più benefico. Non solo ella amava e proteggeva le arti, ma le opere di beneficenza nascevano innumerevoli, sotto i suoi passi. La sua carità fu senza limiti. A Roma, in piena stagione mondana, oppressa da doveri spesso faticosissimi, ella usciva dal Quirinale prima delle 9, accompagnata dalla Dama d'onore che non la lasciava mai, la buona coraggiosa devota instancabile marchesa di Villamarina, e andava a visitare e ad aiutare tutte le istituzioni che aveva create per alleviare la miseria.
All'Esposizione delle Arti Decorative tenutasi recentemente a Parigi, si sono veduti i campioni di merletti, i ricami, le meraviglie di abilità che produce l'industria femminile italiana. Fu la Regina Margherita che risuscitò e rinnovò in tutta la penisola quelle tradizioni che stavano per morire. A Venezia, specialmente, per opera di una delle sue dame, la bella contessa Adriana Marcello, patrizia veneta, l'industria del merletto, vicina a perire riprese il suo posto e la sua importanza, e seguendo l'esempio della Regina le donne si ornarono a gara del meraviglioso punto di Venezia...Mai Burano fu più prospero e fiorente.
La Regina voleva essere sempre vestita con la ricca eleganza che conveniva al suo grado: amava i colori vivi, che le stavano bene, e quando passava per le vie si udivano le donne del popolo esclamare: “Come è bella, come è carina!”.
La amavano, questo è certo. Ella era affabile con tutti. Un quadro che piacque al suo tempo, e che è stato riprodotto in cartolina ha per titolo queste parole: “Passa la Regina”. Ella passa sì, ma la vettura è ferma: delle bambine vestite di bianco le presentano una supplica che essa legge. Un po' indietro dei vecchi e delle donne aspettano il loro turno... La Regina passa, ognuno ha diritto di sperare!
Così condiscendente con gli umili, ella faceva un'accoglienza piena di grazia a coloro cui concedeva udienza. Quelli che hanno avuto la fortuna di essere ricevuti da lei nel Salone del Quirinale dai riflessi rossi in cui abbondavano la luce e i fiori, non potevano dimenticare quei momenti. Se era una signora che le si presentava, la bella Regina “radiosa” (tale è l'impressione che essa dava) stava in piedi durante le tre riverenze volute dall'etichetta, all'ultima delle quali la visitatrice era ammessa a baciare la mano; dopo di che, incoraggiata e rassicurata, era invitata alla più amichevole conversazione... La Regina si degnava di interessarsi agli affari privati della persona che le parlava e congedava infine la privilegiata con squisite e cortesi parole e col suo bel sorriso indimenticabile. In un ballo, costellata di pietre preziose (ella amava le gioie), era incomparabile: emanava da lei una specie di vita inebbriante, ed ella, tenendo circolo, sembrava goderne.
Amava i libri e la musica, la città e la campagna; prediligeva le Alpi; e Gressoney fu per lei un soggiorno favorito: ella vi possedeva una villa e vi si recava ogni anno, fino all'estate 1925, che fu l'ultimo della sua vita.
In giovinezza era stata bellissima, e con la maturità la sua bellezza acquistò un carattere ancor più seducente. Eccola in un ritratto recente. Il viso regolare è come soffuso d'una dolcezza commovente: il suo sorriso è calmo e tranquillo, consolante; i capelli, sempre abbondanti, coronano la bella fronte sormontata da un nodo di gemme. Una maniglia di merletto nero inquadra l'ovale perfetto, e i cinque giri di perle meravigliose, gioiello prediletto, scendono oltre la cintura; una collana di otto giri di perle più piccole le fascia il collo. I suoi occhi vivono. Da tutta l'augusta persona si sprigiona una squisita cortesia. Quelli che l'hanno amata la piangono; quelli che non l'hanno conosciuta la rimpiangono!
(Tratto da “Minerva – Rivista delle Riviste” del 1° Febbraio 1926 – anno XXXIV, n. 3 – Unione Tipografico Editrice Torinese – pagg. 85-87).
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