7 Gennaio 1926 - Giovedi

Le Accademie italiane e la nuova Accademia d’Italia

 

Se la frase non avesse ormai un contenuto squisitamente ironico, si potrebbe dire che l’Italia è il paese delle Accademie. Contentiamoci di affermare che lo è stata e che la fioritura accademica del XVII e del XVIII secolo ha lasciato a noi, più che tutto, uno strascico di nomi e di tradizioni, alcune delle quali nobilissime. In realtà ci fu un tempo in cui dieci persone non si potevano trovare insieme senza fondare un’Accademia: ma si trattava di amici letterati, artisti, scienziati, che credevano in tal modo di cooperare al progresso delle relative discipline, coordinando i loro studi, le loro ricerche, le loro dissertazioni, e che cercavano talvolta di sfogare qualche più o meno legittima ambizione. Bisogna pensare che allora non esistevano i mezzi d’indagine, i laboratori che esistono oggi, né le società di cultura, né i mezzi di diffusione, specialmente riviste e giornali, che permettono a noi di tenerci al corrente contemporaneamente di molte cose e di lavorare, ciascuno per nostro conto, anche per uno scopo comune. Considerate a questa stregua le Accademie non furono inutili: molte anzi ebbero qualche pagina gloriosa nella storia delle lettere e delle scienze (basti nominare l’Accademia della Crusca e quella di Cimento). E se oggi quelle rimaste – che pur sono molte – sono spesso solo dei ruderi di un bel passato, qualcuna ha pur sempre ragione d’esistere per l’aiuto che porge agli studi e per il nuovo impulso che ha saputo dare alla propria attività.

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Con uno dei suoi tratti geniali Benito Mussolini ha visto come sulle rovine delle vecchie Accademie potesse e dovesse sorgere in Italia un’Accademia unica, che tutte le riassumesse e che accogliesse nel suo seno gli uomini più insigni nei vari campi dell’attività intellettuale. C’è da salvare un ingente patrimonio di fantasia, d’arte, di studio della dispersione, c’è da aiutare chi può fare e viceversa non può fare per mancanza di mezzi, c’è da incoraggiare i giovani, da migliorare le condizioni di chi lavora, da scegliere e riconoscere quello che c’è di buono nella produzione di un anno, da stampare quello che merita di essere stampato, da premiare i buoni libri, da divulgare ciò che merita di essere divulgato in Patria e fuori.
Questo dovrà fare la nuova "Accademia d’Italia" coi suoi trenta membri, che saliranno poi – a quanto sembra – fino a sessanta, accentrando i mezzi finanziari che erano finora destinati dai Ministeri ad incoraggiare le ricerche scientifiche, i proventi delle percentuali sui diritti d’autore, il cospicuo assegno governativo e le percentuali delle opere di pubblico dominio, ecc., coadiuvando l’azione delle Accademie minori ed assorbendo quelle che non hanno più ragione di esistere. Così l’Accademia potrà con larghezza di mezzi esercitare una funzione di alta importanza nel paese, assai diversa da quella che compie l’Accademia di Francia. Questa, che ha una storia e una tradizione (com’è noto fu fondata nel 1634 dal Cardinale Richelieu), oltre ai premi di virtù, ai premi letterari, alla compilazione del vocabolario, alla stampa di qualche opera speciale, non ha un compito molto esteso. Ma è l’Accademia, è quella che, nominalmente almeno, dà diritto al titolo d’immortale, è la branca la più antica e la più importante, di quell’Institut de France, di cui fanno parte le altre Accademie di scienze, di musica, di archeologia, di sociologia, le quali, insieme a quella che ha sede nel Palazzo Mazarino, si riuniscono una volta l’anno in tornata solenne.
L’Accademia d’Italia dovrebbe rassomigliare più che all’Accademia all’Institut de France, ma essere qualcosa di più vivo, di più alacre, di più fascista.

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Mentre si aspetta che la grande Accademia sia definitivamente e ufficialmente costituita e calmate le ansie dei candidati e soprattutto degli autocandidati, che sono i più numerosi, non è privo di interesse fare una rapida corsa nella storia delle altre Accademie italiane, soprattutto di quelle che ebbero una reale importanza e delle quali non poche ancor oggi sussistono ed hanno ragione di vita.
Cominciamo dalla più venerabile: l’Accademia della Crusca. Veramente, di essa si è tanto parlato che non c’è più niente di nuovo da dire. Essa è stata, fino a questi ultimi anni, la massima Accademia letteraria italiana, alla quale era riservato il compito di custode della lingua, di scegliere, cioè, fior da fiore e di consacrare nel suo vocabolario i termini genuini dell’idioma nostro. La quinta edizione del vocabolario era già a buon punto, quando nel marzo 1923, per ragioni finanziarie, il Governo Nazionale aboliva l’assegno annuo relativo e limitava il compito della Crusca alla preparazione di edizioni critiche dei testi classici. Però l’opera del vocabolario non è stata sospesa, essendosi a tale scopo costituito un Ente Nazionale, presieduto dal Sindaco di Firenze, che ha già trovato fondi cospicui ed altri ne troverà.

La Crusca è nata nel 1583 dall’Accademia degli Umidi, di cui facevano parte G.B. Dati, A.F. Grazzini (il Lasca), Bernardo Zanchini, e Bastiano de’ Rossi; e più tardi vi entrò Leonardo Salviati. Il Lasca si burlava fin d’allora dei colleghi, vaticinando:

Fien tosto il grido e l’alta fama uditi degli Umidi suonar dall’Indo a Tile,

“non immaginando - scrive Ferdinando Martini - che quella brigata di uomini eruditi e gioviali, quale fu negli inizi l’Accademia Fiorentina, avrebbe poi accolto nel suo proprio grembo e Granduchi di Toscana, e Re di Sassonia e Imperatori del Brasile”.

L’Accademia ebbe per insegna il Frullone, a capo fu eletto un Arciconsolo e gli accademici assunsero nomi attinenti alla Crusca, come lo “’Nsaccato”, il “Trito”, “l’Infarinato”: ciascun accademico scelse anche un insegna che veniva dipinta su una pala. E le pale si conservano con altri oggetti curiosi nel Museo di Palazzo Riccardi. Puramente letteraria in principio, cominciò nel 1591 a raccogliere le voci per un Vocabolario, alla compilazione del quale furono poi deputati 19 accademici: nel gennaio 1612 uscì la prima impressione: la quarta nel 1738. Nel 1783 Pietro Leopoldo, che pure fu principe di animo retto e volontà operosa, abolì con un tratto di penna la Crusca. È vero che allora l’Accademia sonnecchiava (“si trova – diceva il motuproprio granducale – senza vigore e attività”). Ma anche l’Italia – osserva il Martini – sonnecchiava con lei e dopo Aquisgrana segnatamente, il dormiveglia parve letargo”. Comunque, per allora della Crusca non si parlò più e ci volle Napoleone per richiamarla in vita: un decreto suo, in calce al quale è anche la firma di Cesare Balbo costituiva un’Accademia Fiorentina divisa in tre classi: del Cimento, della Crusca, del Disegno: a presiedere la prima veniva chiamato Vittorio Fossombroni, per la seconda l’archeologo Luigi Lanzi, per la terza Tommaso Puccini, direttore delle Gallerie.
E fu solo nel 1811 che un decreto imperiale restituiva alla Crusca l’antica autonomia e le assegnava come fine precipuo la compilazione del Vocabolario. La nuova Crusca acquistò la biblioteca Riccardiana, si occupò delle edizioni dei testi di lingua, incominciò a curare la quinta edizione del Vocabolario: ebbe varie sedi e nel 1817 passò dai Georgofili alla sede attuale, sontuosa e degna della sua tradizione, nel Palazzo Riccardi.
Per quanto sia stata spesso oggetto di critiche e d’ironie, specialmente per la lentezza con cui ha provveduto al lavoro del vocabolario, bisogna riconoscere che l’Accademia della Crusca ha compiuto, anche in tempi di triste rilassamento, opera altamente meritoria per la conservazione del patrimonio della lingua, ed ha dato agli studi letterari uomini insigni, fra i quali ultimo per ordine di età, ma non per merito, Isidoro Del Lungo.

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Un’altra Accademia gloriosa è quella dei Lincei, fondata a Roma nel 1603 dal principe Federico Cesi insieme a Francesco Stelluti, Giovanni Eckio, olandese, e Anastasio De Fillis, ed ebbe fin da principio scopi prettamente scientifici con soci corrispondenti e luoghi di studio “nelle quattro parti del mondo”. Fu scelta per impresa la Lince col motto Sagacius ista, per indicare che nello studio della natura devesi procurare di penetrare l’interno delle cose.
Ebbe fra i suoi soci Galileo, di cui pubblicò le lettere sulle Macchie solari e il Saggiatore. C’è, a questo proposito, da ricordare una pagina dell’Accademia che è per lei argomento di grande onore: la seduta del 24 marzo 1616, durante la quale fu escluso dall’Accademia Luca Valerio, uomo di gran fama e amico del Galileo, fattosi accusatore di questo, allora ammonito dall’Inquisizione.
Il 26 Febbraio 1616 Galileo aveva ricevuto dal cardinale Bellarmino ammonizione di non sostenere la dottrina del moto della Terra, perché contraria alle Sacre Scritture, e il 5 marzo la Congregazione dell’Indice aveva proibiti i libri De Revolutionibus Orbium Coelestium del Copernico. I Lincei sostennero potersi adoperare la dottrina del Galilei come ipotesi, ciò che provocò una dichiarazione del Valerio di non voler più appartenere ai Lincei, perché fautori di una dottrina perniciosa. Domenico Casutti ha pubblicato il testo preciso della deliberazione presa dall’Accademia contro il fratello, escludendolo dal commercio e dalle tornate accademiche e privandolo “della voce attiva e passiva”.
E vi era coraggio a far questo, mentre il Valerio veniva a denunziare in un certo modo i colleghi presso l’Inquisizione; si pensi che si era sotto Papa Paolo V, sedici anni dopo il rogo di Giordano Bruno, a pochi giorni di distanza dall’ammonimento a Galileo.
Morto il Cesi, l’Accademia continuò sotto la direzione di Cassiano dal Pozzo, ma si estinse nel 1651, per risorgere quasi un secolo dopo, nel 1745 per opera di Giovanni Paolo Simon Bianchi da Rimini; ma anche questa fu vita breve, finché nel 1801 l’Accademia Fisico-Matematica, istituita alcuni anni innanzi in Roma dall’Abate Feliciano Scarpellini, su proposta di Gioachino Pessuti, ricordando le glorie degli antichi Lincei, ne assunse il nome e la divisa, chiamandosi dei Nuovi Lincei e poi semplicemente dei Lincei. Morto nel 1840 lo Scarpellini, fu abolita da Gregorio XVI. Nel 1847 Pio IX la riaprì e le diede un nuovo statuto: nel 1870 la Società prese il nome di Reale Accademia dei Lincei, e Vittorio Emanuele ne sancì lo statuto dividendola in due classi, una di scienze fisiche, matematiche e naturali, l’altra di scienze morali, storiche e filologiche.
Re Umberto istituì due premi annuali di 10 mila lire ciascuno, per i migliori lavori e scoperte delle branche in cui è divisa la Società. Vi si aggiunsero poi altri premi e concorsi cospicui. Nel 1883 il Governo acquistò per sede dell’Accademia il Palazzo Corsini, e il principe Corsini le fece dono della magnifica libreria e della sua celebre collezione di stampe. Ora la classe di Scienze fisiche consta di 65 Soci nazionali, 65 corrispondenti e 100 stranieri, quella di scienze morali di 58 soci nazionali, 58 corrispondenti e 58 stranieri.
Hanno fatto parte dell’Accademia uomini insigni da Galileo a Gioberti: fra gli attuali basterà nominare D’Ovidio, Enriques, Volterra, il Duca degli Abruzzi, Cagni, Marconi, Garbasso, Paternò, Chiarugi, Lustig. Nelle scienze morali, storiche e filosofiche Comparetti, Rajna, Vitelli, Mazzoni, Pistelli, Lanciani, Pernier, Ducati, Del Lungo, Boselli, Luzio, Schiaparelli, Chiappelli, Gentile, Scialoia, Calò, Vivante, Luzzatti, Stringher, Tittoni, Croce, Einaudi, Tamassia. Fra gli stranieri Painlevê, Einstein, Nansen, Brückner, Arrhenius, De Vries, Richet, Sabatier, Fournier, Bergson, Russel e tanti altri.
Meno vasta nel suo programma, ma di grande importanza e autorità e veramente benemerita, perché ha rivolto sempre le sue opere all’incremento dell’agricoltura e delle scienze naturali, è l’Accademia dei Georgofili di Firenze, fondata nel 1753 dal canonico Lateranense Ubaldo Montelatini e che ebbe per prima sede – per concessione di Pietro Leopoldo – nientemeno che Palazzo Vecchio. Come Accademia economico-agraria è la più antica del mondo, avendo più di 170 anni di esistenza ininterrotta. Fu costituita espressamente per aiutare in Italia il risorgimento dell’agricoltura. Napoleone la protesse e le commise l’esame del codice rurale dell’Impero. Promosse la fondazione della Cassa di Risparmio e della Società Toscana di Orticoltura, e sono memorabili le sue discussioni sulla libertà frumentaria e sull’istruzione agraria.
Numerosi furono i concorsi a premi banditi dall’Accademia e con notevoli risultati per l’Agricoltura; si deve a lei la conoscenza e la diffusione del grano gentile rosso, l’introduzione nell’uso delle Calcionamide, la difesa degli olivi dal Cycloconinus, la campagna contro la mosca olearia. Oltre 2500 sono le memorie uscite dall’Accademia e ben 165 i concorsi a premio.
La sua sede fu, dopo palazzo Vecchio, l’attuale in via Ricasoli (allora Via del Cocomero); solo per qualche tempo (dal 1825 al 1840 circa) l’Accademia risiedette al Palazzo Riccardi.
Fra i soci più illustri, basti ricordare Ricasoli, Ridolfi, Corsini, De Cambray, Digny, Guicciardini, Capponi, Peruzzi, Tabarrini, Targioni, Tozzetti.
Più antica, anzi la più antica di tutte le Accademie italiane, è la Pontaniana di Napoli. Fu istituita nel 1442 da Re Alfonso I d’Aragona, che riuniva i soci nella sua Biblioteca di Castelnuovo e interveniva assiduamente alle adunanze. La resse poi il celebre Antonio Beccatelli, il Panormita, e alla sua morte nel 1471 gli successe Giovanni Gioviano Pontano, che introdusse l’uso di mutare i nomi degli Accademici per distinguerli dagli altri miseri mortali. Da lui, che le dette lustro e sviluppo, l’Accademia si disse Pontaniana. Alla morte di Pontano l’Accademia s’illanguidì e fu raccolta e retta da Pietro Summonte fino alla sua morte nel 1532. Allora Scipione Capece la riunì presso di sé e ne assunse la presidenza e la tenne in alta rinomanza per circa 11 anni, fino a quando, accusato qual fautore di massime ereticali dal padre Occhino, nel 18 aprile del 1543 fu privato dell’uffizio di Consigliere del Sacro Regio Consiglio e cacciato in esilio; e l’Accademia naufragò con lui.
Non risorse che nel 1808 sotto il nome di Società Pontaniana, per opera di alcuni uomini di lettere, cui si aggiunsero anche illustri uomini di scienza. Con lo Statuto del 1809 e poi col decreto 10 ottobre 1825, che fuse in una sola la Società Pontaniana e la Società Sebezia col nome di Rinnovata Accademia Pontaniana, questa si costituì definitivamente in cinque classi o sezioni: Matematiche, Scienze naturali, Storia e Letteratura italiana e Belle Arti; il numero dei soci residenti fu limitato a cento. Ha pubblicato più di 50 volumi di Atti, ha bandito numerosi concorsi.
La Pontaniana si distingue dalle altre Accademie per la libertà e la varietà delle sue opere e per la sua indipendenza dai governi, anche nei tempi più difficili, scegliendo i soci anche fra le donne, dovunque riconoscesse il merito letterario o scientifico , senza curarsi di sapere se la scelta fosse stata gradita o no nelle altre sfere. Quando le fu imposto di cancellare dai suoi albi alcuni soci, perché condannati o emigranti politici, l’Accademia non rispose neppure, e quando Mancini, De Vincenti, Del Re, Scaloja, Imbriani e Lanza tornarono a Napoli, ritrovarono i loro posti in seno alla Pontaniana e li poterono rioccupare fra il plauso dei colleghi.

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Nel 1656 nel salotto della Regina Cristina di Svezia, donna coltissima e piacevole che, abdicato al regno in favore di suo cugino Gustavo e abiurata l’eresia luterana, era venuta a stabilirsi a Roma, si riuniva il primo nucleo di un’Accademia che si proponeva di combattere la retorica e l’ampollosità venute di moda in quel tempo. E fu il principio dell’Arcadia.
Ma la vera Arcadia nacque qualche tempo dopo nei giardini del Convento di San Pietro in Montorio, per opera di alcuni letterati, che vollero farsi apostoli di semplicità, simulando un ritorno alla Grecia dei pastori e dei poeti; assunsero perciò nomi greci, denominando il giardino dove si leggevano le prose dei primi Accademici e si recitavano i versi, Bosco Parrasio. Si hanno, fra i nomi, quello dell’Arcivescovo della Noce, del Vescovo S.M. Suares, di G. Francesco Albani (poi Clemente XI), di Stefano Gradi, bibliotecario della Vaticana, del Menzini, del Guidi, del Filicaja, di Gian Mario Crescimbeni.
L’Accademia che si estese ed ebbe colonie in diverse città d’Italia, occupò varie sedi, prima in San Pietro in Montorio, poi nella Villa del Duca di Paganica a San Pietro in Vincoli, agli orti Farnesiani, nel giardino del Duca Salviati, ecc. Giovanni V di Portogallo dette all’Arcadia i mezzi di acquistare una sede propria, che fu il “Bosco Parrasio” sul Gianicolo. Attualmente possiede anche un bel palazzo a San Carlo al Corso, con una bellissima biblioteca, dove non mancano le opere rare, e una pinacoteca dove sono riuniti i ritratti degli Arcadi più illustri, fra i quali il Redi, il Viviani, il Verri, il Cesarotti, l’Alfieri, il Monti, il Perticari, ecc. ecc.
L’Arcadia, che cercò reagire al cattivo gusto di un’epoca tutta svolazzi e barocchismi, cadde poi in un convenzionalismo pastorale che inondò l’Italia. Più tardi, scomparsa la moda dei pastorelli e delle zampogne e degli idillii, anche l’Arcadia ritornò un’Accademia letteraria come tutte le altre, sede di onesti sfoghi poetici e di panegirici rigorosamente ortodossi.

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Roma possiede tuttora due gloriose Accademie: quella di San Luca e quella di Santa Cecilia. L’Accademia di San Luca risale al 1577 e fu, fin da principio, dedicata alle Belle Arti: si chiamò anzi dapprima Collegio dei Pittori e più tardi Università delle Arti. Federico Zuccari e Girolamo Muziano la riformarono e ne redassero gli Statuti, mettendo alla testa della Società un Principe, assistito da coadiutori e consiglieri, ed al Principe, Pio VI concesse il titolo di Conte Palatino. L’Accademia di Santa Cecilia, costituita nel 1566 dai maestri di Cappella, che avevano accettata la riforma palestriniana, fu ufficialmente riconosciuta nel 1584 da Papa Gregorio XIII e si chiamò Congregazione dei Musici di Roma sotto l’invocazione di Santa Cecilia. Dal 1741 tutti coloro che volevano esercitare l’ufficio di Maestro di Cappella, dovevano esser sottoposti al suo giudizio. Ha per iscopo l’incremento della scienza e dell’arte musicale e vi è annesso il Liceo per l’insegnamento teorico-pratico dell’arte musicale nei suoi diversi rami.
Antiche e nobili origini ha l’Accademia Virgiliana di Mantova: nel novembre del 1562 Don Cesare Gonzaga di Guastalla apriva in Mantova nel proprio palazzo un’Accademia cui pose nome degli Invaghiti, che ebbe momenti di vero splendore: altre Accademie si costituirono poi accanto a questa, che aveva assunto con la bolla di Papa Pio IV carattere nobiliare e furono denominate degli Invitti, dei Timidi, degli Accesi, degli Imperfetti. Tutte questa Accademie, insieme alla Colonia Arcadica Virgiliana, che alla metà del ‘700 Maria Teresa prese sotto la sua alta protezione, si fusero poi in una Reale Accademia di Scienze, Lettere edArti, che divenne nel 1767 una specie di scuola superiore di filosofia, matematiche, chirurgia e anatomia, fisica, belle arti, lettere, musica, agricoltura… E mi pare che basti!
Allogata nello splendido palazzo Gonzaga, ebbe allora il massimo fulgore e si fregiò dei nomi del Pindemonte, del Paradisi, del Parini, del Verri, del Volta, dello Spallanzani e del Tiraboschi.
Il suo titolo di Accademia Virgiliana le venne da un decreto Napoleonico del 20 Fruttidoro della Repubblica Francese (8 settembre 1797). La sua attività veramente cospicua è provata dai molti volumi di Atti e Memorie, dalle molte ricerche storiche (dirette ora da Alessandro Luzio), dagli studi virgiliani, sotto la direzione di Giuseppe Albini: e per fare onore al suo nome l’Accademia si prepara, per il 1930, a solennizzare con opere durevoli il bimillennio della nascita del più grande poeta della latinità.
All’Imperatrice Maria Teresa risale l’Accademia degli Agiati, di Rovereto, costituita in Casa Saibanti l’anno 1750 e munita d’Imperiale e Reale Decreto. L’Accademia, che vive tuttora e che comprende scienziati e letterati di tutta l’Italia, ha per impresa una piramide, che una chiocciola faticosamente ascende col motto “giunto ‘l vedrai per vie lunghe e distorte”. Per molti anni fu presidente onorario dell’Accademia Antonio Rosmini e nonostante la inevitabile mescolanza che in essa sempre si ebbe di tedesco e d’italiano, nonostante le Costituzioni di Maria Teresa e le disposizioni che venivano da Vienna, l’Accademia non cessò in ogni tempo di dare prova della sua italianità, oggi definitivamente affermatasi nella terra redenta.
E per ultima, fra le più antiche e le più originali Accademie italiane, che ancor oggi sopravvivono, in tempi così mutati e così poco adatti a tali forme di dilettantismo letterario o artistico, va citata quella de’ Rozzi di Siena, cui s’intitola il teatro di sua proprietà, uno dei più belli e rinomati d’Italia. Nella sede dell’Accademia sono stati incisi recentemente i nomi dei primi fondatori dell’antica Congrega con questa iscrizione: “Dodici cittadini di popolo, successori dei comici senesi che recitavano in Roma, alla corte di Leone X, lor rustical commedie, desiderosi d’ingentilirsi cogli ameni esercizi letterari e drammatici, iniziarono la Congrega dei Rozzi e ne dettarono i primi statuti, 8 ottobre MDXXXI”.
E i fondatori, ch’eran tutti dei modesti artigiani, salvo uno che si qualificava “trombetta del Duca d’Amalfi”, avevano assunto dei curiosi nomi: il Digrossato, il Voglioroso, il Risoluto, il Pronto, il Dondolone, il Rimena, ecc. ecc.
Tutti costoro, dotati di gentile ingegno e di attitudine al comporre, al poetare, al recitare, han lasciato un vero tesoro della lingua parlata e dei costumi senesi del Cinquecento.
Delle numerose Accademie sorte in Siena, nessuna ha resistito al tempo, salvo quella dei Fisiocritici, fondata alla fine del 600 da Pino Gabrielli. I Rozzi invece vivono da 373 anni, mantenendo il culto delle lettere, della drammatica, della musica e della storia, ed esercitando quella signorile operosità, che è titolo di onore e di distinzione per gli attuali dirigenti.

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Molte altre sono le Accademie italiane che converrebbe nominare, perché l’elenco fosse completo: di esse alcune esistono ancora, come la Colombaria di Firenze, che si occupa di erudizione storica e di archeologia; come l’Ateneo Veneto, che fuse nel 1810 in un solo organismo le preesistenti Accademie scientifico-letterarie veneziane; come l’Olimpica di Vicenza, fondata nel 1556 da ventun soci, fra cui Andrea Palladio; come la Rubiconia dei Filopatridi di Savignano di Romagna; come l’Accademia degli Euteleti di San Miniato; come la Petrarca di Arezzo; come la Cosentina di Cosenza (l’unica prettamente filosofica per opera di Bernardino Telesio); come la più moderna Gioenia di Catania; la Peloritana di Messina; l’Accademia di Scienze fisiche e morali di Bologna; l’Accademia di Scienze, lettere ed arti di Modena. Altre, come gli Arditi di Alberga, gli Immobili di Alessandria, i Gelati di Bologna, gli Addormentati di Genova, gli Invaghiti di Mantova, gl’Inquieti di Milano, la Partenia di Napoli e di Roma, gli Eterei di Padova, gli Occulti di Salerno, gli Accesi di Savona, gli Incogniti di Torino… sono morte e seppellite da un pezzo, pur avendo, quasi tutte, nella loro storia, pagine che meriterebbero di essere conosciute. Ma chi, che non voglia di proposito scrivere un volume e rinvangare quasi tre secoli di storia italiana, si accingerebbe a nominare e ad illustrare tutte le Accademie che sono nate, fiorite e morte nel Bel Paese?
Quelle che abbiamo nominato e di cui abbiamo tracciato brevemente la storia, basteranno a dare un’idea di ciò che furono e rappresentarono le Accademie in Italia, prima che questa fosse riunita e sistemata a dignità di nazione ed assumesse quindi l’auspicata unità di cultura. Fra mezzo al dilettantismo, alle ampollosità, agli sfoghi d’innocenti ambizioni, al dirizzone di mode passeggere cui s’informa in gran parte l’opera di molte Accademie italiane, germoglia pure e fiorisce in esse, anche nei tempi più tristi del servaggio politico, l’amore agli studi e alla cultura, l’attaccamento commovente alla lingua di Dante, la volontà di conservare intatto il patrimonio intellettuale della stirpe.
Per questo le Accademie non sono state inutili, per questo, oggi che hanno compiuto la loro funzione nelle varie regioni d’Italia, è bene che dal seno delle superstiti sian tratti alcuni dei maggiori esponenti per quella che sarà la sola Accademia dell’Italia moderna, il centro delle forze culturali e creative di tutta la nazione.

 

Cipriano Giachetti

 

( Tratto da : Almanacco Italiano 1927 diretto da G. Fumagalli - Bemporad & Figlio - Firenze, 1926 )